
Magic the Gathering (qui una recensione autorevole) è un gioco psicologicamente piuttosto interessante. Molto in breve, due maghi si affrontano sfruttando diverse fonti di energia magica, impiegandole per evocare creature, artefatti o lanciare incantesimi. Si tratta di un gioco di carte: entrambi i giocatori possiedono un mazzo ed ogni carta è un simbolo da impiegare nella costruzione semantica dello scontro ludico.
Magic ha avuto un enorme successo ed ancor oggi, a più di 30 anni dalla sua prima pubblicazione (5 agosto 1993), continua ad esercitare un fascino sostanzialmente immutato. Perché? Cosa caratterizza la dinamica che ha determinato la diffusione e la permanenza di quello che possiede le caratteristiche di un fenomeno socioculturale?
Il mazzo è l’oggetto chiave del gioco: è ciò che rappresenta il Grimorio, il libro degli incantesimi del mago. Un mazzo è personale ed è frutto di ricerca e calcolo. Le caratteristiche dei mazzi sono oggetto di grande discussione ed innumerevoli messe alla prova: essi possono essere il prodotto di qualcosa che somiglia ad una scienza matematica oppure consistere nella proiezione di aspetti della personalità del giocatore e rivelare tratti della sua ricerca di controllo delle incertezze. Le carte si suddividono essenzialmente in cinque diversi insiemi, cinque colori che racchiudono alcune precise tendenze psicologiche umane (qui una singolare dissertazione sul tema): il bianco come pace, ricerca di armonia e cooperazione, il blu caratterizzato dal desiderio di miglioramento, di perfezione, il nero che incarna il sacrificio, la rinascita, ma anche il distacco, il rosso con la manifestazione della passione, della spontaneità e del caos, il verde emblema del riconoscimento delle ciclicità e delle dinamiche della natura.
Il giocatore crea il suo mazzo scegliendo tra i colori, abbinandoli e focalizzando quindi l’attenzione su ogni singola carta, sempre tenendo presente l’insieme complessivo delle stesse. Un mazzo può essere equilibrato, aggressivo, meditativo… in breve, può letteralmente incarnare delle qualità psicologiche, delle aspettative, possedere uno scopo, un “carattere”. La costruzione di un grimorio personale può richiedere molto tempo e molte ricerche. A volte è una singola, importante carta a fungere da catalizzatore e a fornire le ragioni semantiche ed emotive per aggregare attorno a sé il resto del mazzo, a volte una singola carta richiede fatica, attesa od un notevole esborso di denaro per essere acquisita.
Il mazzo, quando non è un mero strumento logico-matematico acquistato pronto per ottenere qualche chance di vittoria, è emanazione diretta della persona, è un suo prolungamento, è materializzazione delle sue intenzioni. Il grimorio diviene importante, significativo per l’individuo perché in un certo senso lo rappresenta: è il frutto delle sue scelte, consapevoli o meno che siano. Il libro degli incantesimi d’altronde come potrebbe non sussurrare del mago che lo ha creato?
Ecco che sessanta o più carte, in gran parte semplice cellulosa, si ritrovano ad essere cariche di senso emotivo. Simboli e disegni (spesso pregevoli lavori artistici) sono impregnati di ricordi, di “familiarità” fino a far “soffrire” per la “perdita” di una creatura. Le carte sono difese, protette in bustine di plastica trasparente ed ospitate in scatole, in raccoglitori, a preservarne l’aspetto, il valore economico, ma anche emotivo. Un mago contro l’altro, due esseri umani che si fronteggiano in una liturgia che sa di vittoria e sopraffazione, di legami e sacrificio comune, di inevitabilità, di aggressività, di violenza. Solo un gioco? Sì, ma come ogni gioco non fa che lambire ciò che nella realtà non offre la ripetizione: la morte.
I punti di contatto con l’esistenza sono evidenti: la mente e le sue tensioni, le sue tendenze, la sua composita dinamica alle prese con la necessità di confrontarsi con la parziale imprevedibilità dell’esistenza e del confronto. Ma qual è il nemico che stiamo affrontando se non la morte stessa? Una materializzazione dell’umano, una collezione di simboli che lo raccontano, si spinge ad affrontare la fine, incurante dell’angoscia che il senso del limite può evocare. Una liturgia che si può ripetere all’infinito, assaggiando il rischio senza mai doverne deglutire le conseguenze.
La battaglia infuria ed i cuori battono più rapidi. Creature ed incantesimi vengono evocati uno dopo l’altro. I colori si affrontano e si sostengono, in una danza di intenti, di contrasti, di sinergie e connessioni mancate. Un mago soccombe, l’altro trionfa. La possibilità della ripetizione rende possibile il ripensamento, la comprensione, il mutamento del mazzo stesso: ciascun mago, tornato giocatore, si prenderà cura delle sue carte tentando di intuire le ragioni di una sconfitta o di una vittoria, per tornare poi rapidamente a rimettere in scena un’altra edizione dello stesso spettacolo. Un esercizio di controllo su ciò che al controllo di fatto promette di (almeno) tentare di sfuggire: i mazzi vengono mescolati e nessuno sa quale carta la sarà la prossima.
Eppure qualcosa si può fare: rimettere in discussione una carta, cambiarla con un’altra, tentare di prevedere, di comprendere, di ragionare attorno a ciò che non può essere realmente previsto. L’insondabile resta al di là della possibilità della visione, un passo oltre l’orizzonte dello sguardo. Nonostante ciò la mente tenta di afferrare la soluzione (la salvezza?) od almeno di abitare il luogo del limite, in un estremo tentativo di controllo che in Magic diviene la ripetizione del confronto rituale – e quindi controllato, sicuro – con l’ansia che annuncia comunque il raggiungimento del confine con l’incertezza.
La morte si annuncia all’interno della esperienza dell’umano pressoché ad ogni sguardo. A prestare ascolto ai filosofi buddhisti, emerge chiaramente come i dhamma (i fenomeni per come realmente sono) non facciano che annunciare l’essenza della realtà stessa: il mutamento. Il gioco permette la ripetizione e la ripetizione permette l’apprendimento: Magic si struttura come una palestra di gestione dell’incertezza all’interno della quale un simulacro dell’umano, il grimorio, affronta la morte ogni volta in una forma differente, mettendosi alla prova ed apprendendo, garantendosi come frutto della vittoria l’illusione del controllo sul limite e quindi guadagnando il piacere come ciò che è per ognuno di noi: un costrutto, prima di tutto somatico, che sorge quando l’idea della morte si fa remota.