Dove vanno a finire le lacrime.

Dove vanno a finire le lacrime.

Un cestino: un oggetto decisamente umile, poco visibile eppure tanto essenziale. Serve ad accogliere qualcosa di cui ci disfiamo, il più delle volte volentieri. Si potrebbe fare un parallelismo tra le lacrime ed il sudore: entrambi sono il segno che uno sforzo è stato compiuto, che un sacrificio, piccolo o grande, lo abbiamo pur messo in pratica. Se ci prepariamo per una competizione allora sudore significa impegno, rappresenta la nostra determinazione, la nostra voglia di vincere.

Se ci impegniamo in un’analisi personale, allora le lacrime sono il segno che stiamo ragionando su di noi, sono il nostro coraggio di guardare e capire ed, in fondo, sono la rugiada sulla nostra voglia di essere felici.

E’ difficile fare analisi e non la si fa solo perché si scopre di star male: tutt’altro. A volte è una domanda a ronzarci in testa ed allora andiamo dallo psicologo perché decidiamo che è giunta l’ora di avere uno spazio, tutto per noi, adatto a comprendere e fare chiarezza. Eppure quella domanda (sembrava inoffensiva?) ci porta lontano, profuma di qualcosa che conosciamo appena o che non ricordiamo quasi più. Dentro di noi una questione si sta facendo certezza: proprio quella domanda potrebbe condizionarci e fino a che non sarà chiarito il suo potere, non saremo liberi come ci aspettiamo di essere.

Se penso ai miei pazienti, avverto il loro desiderio di libertà: autentico, caparbio, ribelle. Individui capaci di coltivare il proprio desiderio di comprendere e di non essere soggetti ai “muri di vetro” che tanto spesso cito.

Le lacrime allora sono la materializzazione della fatica, della passione, del trauma, della gioia. Profumano di vita, proprio come un temporale e le seguo con lo sguardo, goccia a goccia, senza perderne nessuna. Dentro ci vedo l’arcobaleno di tutte le emozioni che le hanno causate e che a loro seguiranno.

Il cestino poi si svuota, ma le lacrime non vengono buttate via. Si sono già asciugate, sono da qualche parte nell’aria, a guardare orgogliose gli occhi da cui provengono. E sperano che quegli occhi, dopo, non avranno più bisogno di loro.

Un commento

  1. Simonetta Degli Atti

    Non ho idea come sia opportuno commentare questo articolo tuttavia azzardo. Intanto è stata una piacevole sorpresa aver ricevuto la mail in questione. Credevo di non essere riuscita a perfezionare l’iscrizione al blog. Mi è accaduto spesso di riflettere a proposito di una espressione di S.S. il Dalai Lama che recita più o meno così: “non consentite a chicchessia di utilizzarvi come un cestino dei rifiuti in cui gettare emozioni di cui ci si vuole frettolosamente liberare”. In questo articolo invece il cestino assume una connotazione decisamente positiva, e trovo molto poetica l’immagine di lacrime che si asciugano e poi restano a guardare cosa ne è del terreno che hanno fertilizzato. Tuttavia mi trasmette una certa tristezza l’idea che il terapeuta sia il facilitatore e il testimone dell’evoluzione dei propri pazienti ma che poi debba restare in disparte e non possa cogliere con essi i frutti della loro evoluzione, della ritrovata maggiore libertà. A me auguro che il mio terapeuta voglia restare a far parte della mia mia vita per sempre, certamente in nuovi ruoli, ma pur sempre accanto a me e possa beneficiare insieme a me del lavoro fatto insieme. Auspico che non gli resti solo un cestino pieno di lacrime, neppure se queste sono divenute bellissimi cristalli capaci di scomporre la luce in tutti i colori dell’iride.

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