Tu che leggi, provi sentimenti?

Tu che leggi, provi sentimenti?

Il 19 marzo 2021 è stato pubblicato su iScience lo studio “Behavioral and neurophysiological evidence suggests affective pain experience in octopus“, che in italiano si può tradurre come “Prove comportamentali e neurofisiologiche implicano l’esperienza di dolore affettivo nel polpo”. Si tratta di un lavoro scientifico (in cui gli animali hanno comunque sofferto) in cui si conclude che “È generalmente accettato che i vertebrati provino dolore; ad ogni modo, attualmente vi sono prove inconcludenti circa il verificarsi della componente affettiva del dolore negli invertebrati. In questo studio dimostriamo che nel polpo, l’invertebrato neurologicamente più complesso, viene esibito comportamento cognitivo e spontaneo indicativo dell’esperienza del dolore affettivo”.

Significa che sui vertebrati (mucche, cani, maiali, gatti, criceti, pappagalli, quaglie…) c’è poco da dire, è accertato che provino sentimenti, mentre dei dubbi sussistevano a proposito degli invertebrati, ma questo studio si occupa appunto di fugarli: anche il polpo esibisce un comportamento tale per cui si può tranquillamente parlare di “dolore affettivo”. Sì perché esiste il dolore fisico, cioè il male vero e proprio, e c’è un dolore affettivo, il quale consiste invece nella preoccupazione, nella paura, nell’ansia, nell’angoscia, nel terrore.

Quindi tutti i vertebrati provano paura ed angoscia e da oggi sappiamo che anche per gli invertebrati è lo stesso. Iniziamo il nostro ragionamento da questa affermazione, un solido fatto scientifico.

Se prima di conoscere tali informazioni ci si poteva dire in qualche modo “innocenti” rispetto a comportamenti che infliggono sofferenza, paura, angoscia e morte agli altri esseri senzienti, adesso vengono a cadere tutte le possibili attenuanti. A dire che gli animali (insieme di cui l’uomo è senz’altro parte) provano sentimenti è la scienza. Come cambierà la nostra vita? Come cambierà la vita degli animali?

L’essere umano contemporaneo, affetto da pandemie, tumori, diabete, inquinamento e vari altri flagelli, auspica piangente ed urlante un “cambiamento”, un “ritorno alle origini”, una “purezza” tutta new age, ma lo fa solamente per il suo tornaconto: anche nel suo dimostrarsi altruista, l’umanità pensa generalmente all’altro solo in funzione di se stessa. Fate bene attenzione: quando si parla di sfruttamento ed uccisione di animali, per dare un “taglio netto” rispetto al passato, si parla di “sostenibilità“, cioè il rendere un comportamento spiccatamente dannoso un po’ meno lesivo, in modo da poterlo perpetrare a tempo indeterminato senza necessariamente distruggere l’ecosistema.

Definiamo “sostenibile” l’ottenere legna da ardere e carta da alberi che vengono piantati e ripiantati a rotazione per questo scopo, definiamo “sostenibile” un’azienda che ha impatto zero sull’anidride carbonica in atmosfera, ma avremmo mai definito “sostenibile” un campo di lavoro nazista solo perché alimentato da pannelli solari? Avremmo mai definito “sostenibile” il lavoro degli schiavi nei campi di cotone solo perché dotato di un impianto di irrigazione a goccia? Non permettiamo alle parole, usate ad arte, di renderci mansueti.

Ciò che importa, appare evidente, non è la “sostenibilità”, cioè l’impatto ambientale di una attività, nel momento in cui questa attività ha a che fare con lo sfruttamento, la sofferenza, l’angoscia e la morte di esseri che provano sentimenti.

Sono certo che queste righe non produrranno alcun cambiamento nella società e parimenti non lo produrrà lo studio cui queste righe hanno accennato. Il motivo della mia sicurezza risiede nel fatto che l’essere umano è schiavo del piacere e dell’abitudine: questa caratteristica ne fa un consumatore affidabile e… nulla più di questo.

Perché rinunciare ad un piacere che è alla nostra portata, accessibile e conveniente? Possiamo imparare molto di una persona osservando il suo rapporto con il piacere e possiamo imparare molto anche su di noi. Se qualcosa è legale, a buon mercato e piacevole, riusciamo a rinunciarvi per una motivazione etica? Se la questione riguardasse un essere umano (e fosse comunque legale), lo faremmo più volentieri? Difficilmente in passato è stato così, infatti per la fine della schiavitù sono serviti secoli di interrogativi e lotte: lo schiavo era utile, a buon mercato e forniva piacere in vario modo, perché rinunciarvi? È servito che la legge lo imponesse. Questo significa due cose: la legge non è un qualcosa di definitivo e la legge può sbagliare.

Ciascuno di noi è non semplicemente “sottoposto alla legge”, ma è chiamato ad interrogarsi sulla legittimità dei divieti e dei comportamenti che la stessa invece prevede ed autorizza. Proprio perché la legge è un qualcosa di plastico, che ci piace pensare risieda su di un piano più elevato rispetto al piacere del singolo od al profitto delle società, ha bisogno degli interrogativi di ciascuno di noi, che per essere sensati devono trasformarsi in azioni: queste possono influenzare gli altri e costringere le norme a cambiare, la legge ad adeguarsi.

Serve essere temerari? Non proprio. Serve il coraggio sufficiente a cambiare abitudini. Le rivoluzioni, nel nostro mondo, iniziano dal carrello della spesa: saprete rinunciare al piacere comodo, pratico e conveniente a causa delle vostre idee e delle vostre decisioni?

Photo by Carolina Sánchez on Unsplash

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