Contro la psicologia, contro le persone.

Contro la psicologia, contro le persone.

Negli ultimi anni si è affermato un fenomeno relativamente nuovo, quello dei siti web che “offrono” servizi psicologici.

In pratica, l’utente invogliato da pubblicità piuttosto convincenti entra in contatto con una organizzazione di privati che provvede poi a farlo interagire con una psicologa od uno psicologo. Gli esempi sono numerosi: due tra i più famosi sono “UnoBravo” e “TherapyChat“, ma ve ne sono altri.

Fin qui non verrebbe da pensare nulla di strano: il tutto è regolato da un contratto chiaro e semplice, i costi sono anch’essi evidenziati, sia per il cliente che per il professionista.

L’organizzazione trattiene qualcosa come il 25-30% del compenso del professionista (questo accade ad ogni seduta) e che la tariffa è decisa a priori, senza sentire in merito né lo psicologo né tantomeno il futuro paziente.

Non mi si equivochi, non si tratta di affermare semplicemente che le società di questo genere “rubino” soldi agli psicologi: queste aziende forniscono un servizio e nel caso in cui si desideri rivolgersi a loro, si deve forzatamente stare al loro gioco, al loro prezzo. Si tratta di legge di mercato, dopotutto.

Eppure la mia perplessità continua a ripresentarsi, non riesco a smettere di pensare che qualcosa effettivamente non vada.

Ripenso allora al rapporto che ho con i pazienti. Prima di tutte emerge nella mia mente la parola “fiducia”.

Ci fidiamo l’uno dell’altro, nessun pagamento anticipato, nessuna tariffa fissa, ma un compenso che, pur partendo da una sorta di cifra iniziale, si adegua poi ad esigenze, disponibilità, periodi più o meno felici. Il mio guadagno è tutto sommato modesto: ho scelto questa professione non per diventare ricco, ma per tentare di portare le poche cose che ho capito tra la gente, nella speranza che possano aiutare qualcuno.

Quindi c’è flessibilità e c’è fiducia. Nessuno sta “lucrando” sull’altro, né sulle sue difficoltà, né sul suo lavoro. Ecco, questo termine “lucrare” mi investe, con una certa potenza, una certa aggressività.

L’idea che durante il rapporto con un paziente esista sempre una sorta di “invisibile terzo“, ovvero l’azienda, che sottrae (ad entrambi, mi viene da dire) del denaro, è quantomeno inquietante. Questa sensazione è dovuta anche al fatto che una richiesta da parte di un paziente è una richiesta d’aiuto, motivata comunque da una quota di dolore, più o meno pesante.

Passi che la psicologia non è praticamente offerta dal Servizio Sanitario Nazionale e che si debba pagare di tasca propria un professionista, ma siamo davvero sicuri che sia etico trarre un guadagno continuativo dall’instaurarsi e dal mantenersi di una relazione terapeutica alla quale, di fatto, non si partecipa e non si apporta nulla di significativo?

Sì perché non si tratta solo di richiedere denaro per aver messo in comunicazione professionista e paziente, ma di richiederlo per tutta la durata della terapia, seduta dopo seduta.

Siamo sottoposti alle leggi di mercato e forse siamo già al di fuori di una relazione terapeutica, almeno per come normalmente la intendo. Il motivo? Molto semplicemente mi viene da dire che uno psicologo è propriamente tale solo se fa quello che fa perché desidera aiutare le altre persone, migliorare la società, quindi il suo fine, il suo movente, è benefico, slegato dal denaro.

Per una società che offre servizi posso affermare la stessa cosa? Ecco trovato il mio principale motivo d’inquietudine, l’idea che alla base di tutte queste operazioni vi sia il movente del guadagno, proprio in un campo delicato come è quello di una relazione d’aiuto.

Assistiamo quindi alla nascita dell’ennesimo prodotto, ovvero il sostegno psicologico, il quale diviene esplicitamente un oggetto posto in vendita da una sorta di imprenditore che ne ha fatto il suo strumento per far fruttare il suo capitale iniziale. Va comunque detto che i prezzi che queste aziende richiedono per seduta sono in molti casi inferiori a quelle di psicoterapeuti privati, un aspetto sul quale comunque si dovrebbe riflettere.

Resto comunque scosso: chiamo un’azienda che offre ciò di cui ho bisogno e questa mi mette a disposizione un suo operatore, proprio come se si trattasse di un call-center. E l’azienda resta lì, per tutta la durata del rapporto, a sorvegliare che ogni cosa vada per il verso giusto, a pretendere la sua parte sui proventi. Il rapporto insomma non è più a due, ma è a tre, con limitazioni sensibili sulla libertà decisionale della coppia paziente-psicologo, i quali restano vincolati comunque prima di tutto all’azienda (solitamente non potranno avere contatti diretti al di fuori della stessa).

Ovvio che gli psicologi non hanno lo stesso potere contrattuale di una organizzazione e che per alcuni colleghi aderire a questo tipo di realtà non è nemmeno una scelta. Li immagino giovani, con molte speranze e nessun paziente, accettare di buon grado ogni condizione pur di lavorare. Chi potrebbe dar loro torto?

Lo scenario mi sembra piuttosto inquietante: paziente e terapeuta messi in comunicazione sulla base delle scelte di un algoritmo, prezzi decisi dall’andamento di mercato e dalle mosse commerciali dei gruppi concorrenti, psicologi arruolati a centinaia… cos’ha a che fare tutto questo con una professione sanitaria?

Insomma, magari sbaglierò, ma la sensazione che ho ricavato dopo essermi messo in contatto con queste aziende, avere valutato i servizi da loro offerti ed in qualche caso dopo esser stato pure scelto come loro collaboratore, è quella di essermi trovato innanzi ad operazioni dal sapore prettamente finanziario, prive di un effettivo, tangibile movente etico.

Ho quindi deciso di continuare a lavorare da solo.

Foto di Christian Dubovan su Unsplash

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