Psicologia del retrogaming

Psicologia del retrogaming

Questa immagine si situa al confine tra due mondi.

E’ la notte del 25 dicembre, da qualche parte in un paese piccolo ed accogliente. Una scrivania ospita un nuovo computer, protagonista assoluto della scena: un Commodore Amiga 500. Il monitor ci mostra un gioco di guerra, ma si tratta di un’opera dissacrante a sufficienza da farsi perdonare ogni presunta colpa. Dall’angolo a sinistra, in penombra, pronto per essere messo da parte (almeno per il momento), ci saluta un Commodore 64, con i suoi inseparabili accessori.

Fuori dalla finestra, la neve. Il regalo di questo Natale magico è acceso ed emana l’idea di possedere una vita propria: quasi una coscienza in grado da fungere da vero e proprio portale tra due universi altrimenti non comunicanti. I protagonisti del gioco invadono il nostro mondo da un foro sul monitor, la fantasia diviene realtà in quello che è un sogno di vita ancora in guscio, in una cameretta di bimbo o di ragazzino. Alle pareti le locandine dei film dell’epoca, sul bordo inferiore dello schermo un biglietto della mamma che chiede di non esagerare. Non sarà possibile accontentarla, ma lo sa anche lei.

Quanto è accaduto negli anni ’80 e nei primi anni ’90 del secolo scorso è poco spiegabile utilizzando solo un elenco di marche di elaboratori ed una lista di software house. Ha a che fare direttamente con una dimensione emotiva ricca e profonda: un attimo fuggente della storia umana in cui i bambini (all’epoca purtroppo quasi esclusivamente maschietti) hanno chiaramente fatto esperienza della possibilità di un cambiamento, di un poter diventare protagonisti. Una nuova realtà si allargava davanti ai loro occhi, una realtà poco percepita e conosciuta dai loro stessi genitori: gli home computer non erano semplici console per videogiochi, ma dispositivi che consentivano di creare, di programmare, di fare. Un’arte, un mix di logica e fantasia, una disciplina affascinante che consentiva ai sogni di diventare, grazie ad uno schermo, in qualche modo più reali perché visibili. Il televisore di casa era diventato, da oggetto passivo dedicato alla ricezione di trasmissioni, uno strumento quasi scientifico grazie al quale era possibile, oltre che gettare uno sguardo nel mondo della fantasia, anche realizzare delle figure che si muovevano, scrivere, produrre suoni.

I film dell’epoca avevano preparato il terreno prima e cavalcato il fenomeno poi. Tutti potevano, armati di un elaboratore da poche centinaia di dollari, “bucare” una rete aziendale, persino quella del Pentagono o magari del Norad: erano sufficienti un accoppiatore acustico, una linea telefonica ed una grande abilità.

I computer non erano “macchine”: oggi sono percepiti esattamente in questo modo, sono “strumenti”, niente di più. Anzi c’è da dire che il computer oggi sa in qualche modo di vecchio, ingombrante, pesante e noioso: la maggior parte delle persone utilizza uno smartphone per fare foto, pubblicarle, scrivere messaggi ed email. L’attenzione è molto incentrata sulla singola applicazione, non sul dispositivo, che viene considerato solamente per la sua “bellezza” e le sue prestazioni in relazione a determinate funzioni di interesse dell’utente.

I computer, allora, invece non erano “macchine”: erano una promessa. E che cosa promettevano? Potere agire, certo, anche se si era piccoli l’idea era quella di acquisire una nuova forma di conoscenza e quindi di “potere”, ma dietro questo c’era anche la bisbigliata possibilità di ottenere calore a causa del fatto che si immaginava di entrare in una relazione. Sembra assurdo?

Un computer era la promessa di uno stare insieme: una volta acceso, un Commodore 64 (con il suo led rosso a bucare l’oscurità di una stanza) era in qualche modo lì con te. Era un “cervello elettronico“. Se nella stanza eri con il tuo home computer (qualunque fosse) allora non eri solo. Anche in questo caso l’immaginario collettivo giocava un ruolo per nulla secondario: film come Corto Circuito proiettavano in una quotidianità dove ci si poteva aspettare che le macchine, per un fulmine od un “problema elettrico”, potessero iniziare a pensare ed a provare sensazioni, esattamente come faceva un essere umano.

La vita degli anni ’80 non era facile come oggi si può pensare (od a volte ricordare). L’idea della guerra nucleare pioveva quasi giornalmente dai telegiornali sulle famiglie e sulla felicità di ciascuno. Il già citato (almeno come collegamento ipertestuale) film Wargames è intensamente rivelatore di tutto quanto detto fino ad ora. Protagonisti sono un mondo governato dalla paura di una incombente catastrofe, un ragazzino particolarmente abile ed una intelligenza artificiale, il computer Joshua. Il ragazzo, cioè chi non ha alcuna capacità decisionale, chi non può far altro che osservare impaurito, acquisisce un potere nuovo, devastante. Il confronto con Joshua fornirà poi le basi per la narrazione ma anche per una questione molto importante riguardante l’autonomia dei sistemi militari, oggi estremamente attuale.

Il computer era il riscatto dei bambini davanti al terrore di un mondo insicuro. Un bambino poteva acquisire potere, ma poteva anche sperare di trovare un amico.

C’era altro però: nelle case, accanto a quei ragazzi che sperimentavano qualcosa di assolutamente, totalmente nuovo (saranno loro le prime generazioni a crescere accanto ad un computer), vivevano i loro genitori. La mamma in cucina, una radio accesa (visto che il televisore era occupato dall’home computer), papà a lavoro, magari un fratello o qualche amico. Casa, calore ed un mondo di prospettive che aumentavano la propria sensazione di poter controllare una realtà sfuggente ed a volte di difficile od impossibile comprensione.

Oggi quei ragazzi di allora hanno probabilmente tra i 40 ed i 60 anni e la loro intenzione di voler recuperare qualcosa ha condotto in modo determinato alla nascita del retrograming, ovvero la pratica di giocare con videogiochi piuttosto vetusti. Ma ovviamente la definizione è qualcosa di riduttivo e spiacevole persino per me che l’ho scritta. Il retrogaming è qualcosa di molto diverso da questo: si tratta, per molti, di recuperare una sensazione ben precisa.

Completezza. La percezione di avere tutto ciò di cui si ha bisogno e di esserne felici, appagati. D’altro canto come poteva non essere così? Immersi nel fiume del tempo che scorre, affannati dalle cose da fare che a volte torturano con gentilezza variabile una persona adulta, la sensazione di pacifica completezza, di esaudimento di tutti i desideri è qualcosa che si vorrebbe davvero cogliere e tenere con sé, come un talismano di protezione.

Come farlo però? E’ recente un certo, folle, aumento di prezzi per dispositivi (come quelli già citati) dotati di capacità di elaborazione di molto (moltissimo!) inferiore ai modelli peggiori di smartphone che riuscite ad immaginare. Ma perché comprare un computer di quattro decadi di vita quando si potrebbe utilizzare un emulatore? Perché un emulatore (secondo molti) non restituisce la “sensazione” che la macchina originale trasmette. E perché? Perché un emulatore funziona grazie a chip di ultima generazione, cioè processori “freddi”, scontati, che non trasmettono più nulla di pionieristico, artigianale… in una parola: vivo.

Oggi come allora, tra i numeri di serie dei microchip di una scheda Commodore, Atari, Sinclair o Philips (ma l’elenco sarebbe lungo!) gli occhi grandi di chi ha vissuto quei momenti durante la giovinezza, scrutano in modo attento per catturare l’essenza di uno stare insieme che regalava serenità e divertimento, che appagava. La famiglia era con loro e, per quanto possibile, proteggeva e dava affetto. Davanti agli occhi un mondo nuovo, foriero di avventure e di realizzazioni meravigliose, rese possibili dall’idea che da qualche parte, lì dentro, ci fosse effettivamente “qualcuno”. Lui, il computer, il portale senziente che permetteva di passeggiare per un po’ in un mondo alternativo, dove tutto era possibile ed in cui, se eravamo abbastanza bravi, un videogioco ci avrebbe aiutato a cambiare le cose, per noi e le persone a cui volevamo bene.

Un bisogno, quello espresso con il fenomeno del retrogaming, che va quindi bene al di là del puro divertimento, ma che comunque lo contempla. Il gioco, la dimensione più autenticamente ludica, è un fattore inscindibile di questa forma di interesse e per molti, all’epoca o poco dopo, ha comportato un vero e proprio ingresso nel mondo dell’informatica professionale. Appunto però c’è dell’altro: riavere, riottenere, ricreare qualcosa che si sente di avere perduto.

Auguro a tutti quei bambini di avere realizzato i loro sogni.

Foto di Toni Bratincevic – www.interstation3d.com

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