Asperger: armi spuntate per il conflitto dell’assurdo

Asperger: armi spuntate per il conflitto dell’assurdo

La classe è grande, si fa più grande di momento in momento. Sono così piccolo, mi guardo l’unghia del mignolo, è davvero troppo, troppo piccola. Adesso penso solo a questo. La cartella verde di una delle mie compagne è davvero verde e mi rapisce gli occhi e quindi, subito dopo, mi fa sentire a disagio, inadeguato, è come se quel verde rivelasse a tutti che non valgo niente.”

“Sono in mezzo agli altri, faccio fatica a guardarli tutti perché sono troppi, faccio fatica a riconoscerli perché i volti sono simili ed io li guardo poco, perché se li guardo negli occhi ho paura, è imbarazzante. Loro però mi guardano, mi parlano. Alzo gli occhi, rispondo, un po’ non capisco subito perché devo comunque osservare e vengo catturato da tanti dettagli. Il bambino che ho davanti ride, non capisco perché, non capisco la battuta, che però fa ridere gli altri, non capisco cosa ho fatto per suscitare le loro risa, che però mi fanno sentire triste e voglio tornare a casa. Non li voglio vedere più, anzi, non voglio che mi vedano più.”

“Ho finito per sentirmi per quello che sono, finalmente, ora soffro di meno. Adesso capisco chi sono: uno stupido, un cretino, un vigliacco, un deficiente, inadatto a stare con gli altri. Sono più veloci, più simpatici, almeno si trovano più simpatici, ma a me non sono simpatici. Come potrebbe essermi simpatico chi mi prende in giro davanti a tutti? Per stare in mezzo agli altri serve essere come gli altri, non come sono io. Mi devo rinchiudere, nascondere, stare da solo.”

“Ho trovato un amico, è come me, siamo uguali per tante cose. Più di tutto gli piacciono i vulcani, come a me ed allora facciamo molte ricerche sui vulcani, sulla lava e sui terremoti. Cerchiamo molti libri. La lava è così calda che può sciogliere ogni cosa, cancellare tutto, è inarrestabile. Se si va oltre un certo grado nella scala Mercalli, il terremoto ha energia sufficiente per piegare le rotaie come se fossero il nastro di un pacco regalo. E’ terribile.”

“Oggi sono stato a casa del mio amico, ma dentro c’era un odore diverso da quello di casa mia. Mi faceva sentire a disagio, impaurito, ho desiderato di andarmene dal primo momento in cui sono arrivato, avevo paura che non sarebbero più venuti a prendermi e che mi avrebbero lasciato lì. E’ stato difficile fare finta di stare bene e non so se ci sono riuscito davvero.”

“Mi piacerebbe avere amici, ma io non mi rendo conto davvero di sentirne il bisogno. Capisco solo che gli altri sono diversi e mi devo proteggere. Sono triste, tantissimo, ma io non so che si chiama tristezza e le cose che faccio mi tengono occupato. Quello che provo è dentro di me, chiuso a chiave perché non voglio che qualcuno veda qualcosa: potrebbe riderne e magari poi, mi rinchiuderebbero, perché se sono diverso così tanto, magari sono matto.”

“Ci sono così tante cose da guardare che è difficile capire quali sono quelle importanti per gli altri. Gli altri sanno sempre cosa guardare e cosa fare, io non so cosa fare o cosa dire. A volte non so proprio cosa dire e se si parla di cose che non mi interessano, sento la testa pesante e mi viene voglia di andarmene. Non capisco come facciano a parlare di altre cose che non siano le cose interessanti ed allora io non riesco a parlarne. Loro se ne accorgono, che mi piacciono solo poche cose, ma a me piacciono tantissimo, sul serio. A volte mi dimentico di andare al bagno, a volte di dormire, a volte di deglutire perché mi interessano davvero tanto.”

“Quando c’è il mio amico, con lui va bene. Possiamo uscire e mi sento più forte, mi sembra che le nostre ricerche saranno importanti se continuiamo a lavorare così. Anche giocare con lui mi riesce facile. Lui non ride di me, forse è questo essere amici. Con lui posso fare quello che mi sento di fare.”

Ci interessa relativamente che la voce “Asperger” sia o meno inserita nel DSM-5, il manuale diagnostico e statistico della salute mentale. Quando dico “Asperger”, oggi, parlo in sostanza di una persona la cui mente è definita come “affetta da un disturbo dello spettro autistico“, ma dotata di un “elevato funzionamento“. Si tratta di una patologia in senso stretto? No. Preferisco, come d’altronde si fa in genere, pensarla come una variazione rispetto alla norma, una “neurodiversità“.

No, non tutte le persone le cui caratteristiche possono essere ricondotte allo spettro autistico con la specifica dell’alto funzionamento possiedono talenti sovrumani, credo anzi che la cosa sia piuttosto rara e, ad ogni modo, è questione di nessun interesse e dovrebbe essere così anche per il grande pubblico, informato sull’autismo purtroppo solo da alcuni capolavori cinematrografici, i quali paiono mettere in luce come ad una forma di (presunto) deficit debba corrispondere per forza di cose una “compensazione” elargita sotto forma di curiose abilità. Tornano in mente i miti greci (ci sarebbe più di un esempio da citare sul guadagno della preveggenza in cambio della cecità), ma più che altro si nota lo sfruttare un fenomeno caratterizzato da profonda sofferenza per ricavare del denaro, niente più di questo. D’altronde oggi giorno si fa lo stesso con il cancro, riscuotendo un buon successo di pubblico.

La fonte dei guai, per chi può essere definito, magari poco elegantemente, “asperger”, è la somma delle sue peculiarità, cioè tutto quanto lo rende differente, identificabile, additabile. Perché è così?

Il problema, per un “neurodiverso“, non è l’essere ciò che è, ma è appunto il fatto di essere distinguibile e, tendenzialmente, privo di difese: di solito non può mentire o comunque non ne capisce l’utilità, come non comprende l’essere preso in giro. Questo lo obbliga a lunghe pause di silenzio, con gli occhi perduti (ma delle sue espressioni facciali si rendono conto gli altri, solitamente con ilarità, visto che risultano inappropriate e buffe), per tentare di identificare le cause ed il significato degli eventi occorsi.

Questo giusto per dire che il problema di un bambino neurodiverso, solitamente, sono gli altri bambini (ed a volte gli adulti con cui viene a contatto). Insegnare ai nostri figli a non prendere in giro chi avvertono come differente e più debole (quale individuo, dopotutto, farebbe mai del male a chi è più forte?) è il primo passo per rendere il mondo un posto migliore e, per fare questo, va da sé come sia necessario trattare con amore e rispetto proprio i nostri figli ed insegnar loro qualcosa di diverso rispetto a ciò che siamo abituati a vivere e che ci fa del male. Ma qui la questione si complica, non trovate?

Il problema di un bambino neurodiverso è in fondo il problema che affrontiamo tutti: una società orientata alla competizione cieca, nella quale i bambini sono stimolati ed incoraggiati a prevalere, a vincere ed, implicitamente, a ricercare la propria affermazione sugli altri. Non ne vediamo forse gli effetti anche su di noi, saggi ed emancipati adulti? Non siamo posti in competizione costante, gli uni contro gli altri, per il nostro aspetto fisico, per ciò che possediamo, per quanto guadagniamo, per l’aspetto del nostro partner, dei nostri figli, per come siamo vestiti, persino per le idee che abbiamo e per come le argomentiamo, per come esprimiamo le nostre emozioni, i nostri sogni?

Quale modo migliore di elevarsi se non colpire il più debole, colui il quale non può difendersi? Non parliamo di violenza manifesta, parliamo di costruire la propria posizione nel gruppo a discapito di chi non riesce a competere e che sappiamo non farà nulla per difendersi. D’altro canto, quale individuo farà mai del male a chi sa che potrà reagire in modo efficace e vanificare l’attacco, penalizzandolo? Nessuno. La violenza è sempre diretta verso un debole, un più debole (o presunto tale) dal punto di vista di chi infligge dolore. Vista in questo modo, la violenza appare esattamente per ciò che è: il crudele gioco di un vigliacco.

Un individuo neurodiverso possiede armi spuntate per partecipare ad una guerra perversa, per la quale non prova alcun interesse. Ma ha bisogno, è letteralmente affamato, di relazioni, di amicizia, di amore. Buona parte di loro incorre nella depressione, buona parte di loro tenta il suicidio. Tutto questo mentre, grazie alla competizione, anche tutti i “neurotipici”, cioè quelli “normali“, non fanno altro che passare da una illusione di felicità all’altra, cercando di sentirsi migliori, per un attimo, di qualcun altro, come in una triste piramide umana, disordinata ed urlante, in cui ognuno tenta di arrampicarsi sui corpi degli altri, tendendo ad un cielo irraggiungibile.

E se avessero ragione i neurodiversi?

Photo by Kat J on Unsplash

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