La febbre da videogioco

La febbre da videogioco

I dati relativi alla dipendenza dal gioco elettronico (non parliamo di chi con i giochi ci gioca – ci mancherebbe – ma di chi dai giochi viene risucchiato fino a perdere fette importanti del suo tempo e della sua vita sociale) sono piuttosto vaghi: non esistono indicatori simili a quelli che ritroviamo per il gioco d’azzardo e, di fatto, le persone coinvolte potrebbero essere molte di più di quanto stimato, certamente con vari livelli di disagio, di distacco dalla realtà, ma, come spesso ricordo, non è necessario che una situazione diventi patologica per avvertire il bisogno di intervenire. In questi giorni mi sono interrogato su quale possa essere la ragione capace di attrarre in modo tanto totalizzante una persona ad un videogioco e desidero condividere con voi alcune riflessioni. 

Prima di tutto è necessario riflettere sull’uomo come un animale sociale: nasce in un contesto che non ha scelto e che lo sottopone, immediatamente, ad un modello di sviluppo e di apprendimento piuttosto rigido, aspettandosi una lunga serie di acquisizioni ed abilità solo per potere essere considerato accettabile. Si prospetteranno poi scelte sempre nuove e più complesse sfide, distese in un lungo percorso costellato da frustrazione, impegno, delusione, soddisfazione, con la costante dell’ansia, in varia misura, a contornare il succedersi dei giorni. 

A volte capita che non si riesca, semplicemente, ad “onorare” quanto richiesto. Genitori, fratelli, amici, possono a volte aver fatto o fare di più, meglio, più in fretta o semplicemente aggravare, con i loro sguardi, i loro giudizi le loro storie, un bilancio di vita già di per se stesso traballante.

Il videogioco moderno presenta un impatto visivo decisamente differente rispetto a quanto eravamo abituati a vedere negli anni ’80 del secolo scorso. Si tratta di scenari molto simili alla realtà, anche se distorti in base alle necessità narrative, dotati di grafica e sonoro di grande qualità, capaci di renderli immersivi. Si tratta di una qualità estremamente delicata, che va analizzata con cura. Cosa significa “immersivo”? Un gioco con questa caratteristica può rendere l’esperienza totalizzante da un punto di vista percettivo, di fatto consentendo di spostare l’intera propria attenzione all’interno dello scenario rappresentato, eliminando inconsapevolmente ma efficacemente l’insieme degli stimoli che provengono invece dal mondo “reale”.

Val la pena di definire a questo punto cosa intendiamo con “reale” e “virtuale“: con il primo termine ci riferiamo a ciò che è oggettivamente presente nella realtà, mentre con il secondo ciò che è rappresentazione digitale della stessa. Un videogioco, per quanto possa risultare realistico, non è “reale”, ma “virtuale”: ciò che si vede è solamente il risultato offerto da una infinità di punti capaci di cambiare colore e variare la propria luminosità, regalando l’illusione della profondità, del movimento, della presenza di oggetti, dell’interazione. 

Nella realtà virtuale il protagonista può affogare la propria frustrazione e, se nella vita reale non è stato capace, per qualunque ragione possibile, di essere ciò che veniva richiesto (od imposto), “qui” può riprogettare la sua esistenza e divenire finalmente un eroe oppure, almeno, una persona qualunque, non additabile, con caratteristiche fisiche migliori, più sicuro di sé, più in grado di competere con gli altri ed, in ultima analisi, essere accettato.

La società ci ha abituati a personaggi straordinari: gli abitanti degli schermi televisivi. Esseri in grado di cambiare le sorti della loro vita e quelle, a volte, di tutto il Pianeta con il solo aiuto del loro impegno e della loro determinazione. I giornali ci informano ritualmente a proposito del caso di un ragazzo che, pur partendo da “umili origini” (e solitamente, in modo incomprensibile, con “umile” o “modesta” ci si riferisce al nascere in una famiglia di operai) dopo la laurea diviene, grazie sempre ad impegno e determinazione, capo del più grande laboratorio di qualcosa da qualche parte. Ovviamente questo tipo di notizie è in grado di precipitare chiunque si stia arrovellando per risolvere i suoi problemi in un uno stato di senso di colpa verso gli altri, e delusione verso se stessi, mentre nel contempo il sistema viene assolto da se medesimo. Altrettanto ovviamente, le statistiche ci parlano invece del costante peggioramento della mobilità sociale (ovvero la difficoltà per chi nasce povero di migliorare la sua condizione, se proprio lo desidera) e dell’accentramento della ricchezza (ovvero: chi è povero lo è sempre di più, chi è ricco, pure). La giustizia sociale insomma, nonostante le pressioni psicologiche fuori misura che tendono a colpevolizzare ognuno di noi, latita, ma basta il caso di un ragazzo su un milione a far gridare alla stampa “allora è possibile!”.

Nella vita reale viviamo tutti gli altri casi, cioè quelli lontani dalla realizzazione, dalla vittoria insita in tutto ciò che vediamo alla televisione, facendo sentire, soprattutto gli adolescenti, inadatti, incapaci, destinati a niente di preciso, lasciandoli in balia di una vita che si trascina e non promette nulla di buono, sospesi in un bagno di insoddisfazione altrui che non fa che entrare in una sinistra risonanza con la loro.

 
Se c’è chi si perde in un videogioco, senza potere o volere più uscirne, il motivo è da ricercarsi proprio in questo perverso applicare la logica della vittoria a tutti i costi, che diviene sconfitta generalizzata per moltissimi, i quali provano frustrazione e delusione, prima di tutto verso se stessi ed, a volte, non possono far altro che cercare un mondo in cui, finalmente, potranno sentire di essere non “qualcuno”, ma semplicemente apprezzati. Un mondo con il livello di difficoltà variabile ed adattabile, con sfide commisurate alle capacità ed alle inclinazioni del protagonista. 

Insomma, se a volte si desidera “uscire” dalla società, il motivo potrebbe essere insito proprio nel tentare, con ogni mezzo, di compiere ciò che ci è stato chiesto, con troppa forza, dalla società stessa… unitamente al rendere qualcuno fiero di noi, ma questo apre decisamente altri scenari.

Photo by Rhett Noonan on Unsplash

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